La mia Venosa

Descrivo in queste pagine la mia città, la mia Venosa.
Narro la Venosa che a me piace.
La Venosa storica e culturale; quella ricca di tradizioni e di valori.
Parlo della Venosa nella quale mi riconosco e nella quale sono cresciuto.
Questa è la Venosa che voglio cantare.

lunedì 28 marzo 2022

La vergogna di un poeta

 5 n

Chissà se oggi lo scultore Achille D'Orsi, autore della statua di Orazio, a 121 anni dalla sua erezione nella omonima piazza, vedendola così conciata, avrebbe detto le stesse parole?
Riporto il discorso dello sculture Achille D'Orsi sulla statua di Orazio Flacco il giorno dell’inaugurazione, avvenuta il 18 luglio 1898.
“La statua di Q. Orazio Flacco, che ho compiuto per incarico del Municipio di Venosa, patria del grande poeta latino, ha bisogno di essere presentata a Voi, o signori dell'Accademia, con alcuni cenni di schiarimento. Intendiamoci bene, un'opera d'arte non deve aver bisogno di note esplicative, e se non si presenta da sé può essere condannata a vivere tra le mediocrità dell'Arte mancata.
Ma a voi, o Signori, che avete conosciuto spiritualmente un Orazio molti dissimile da questo che avete innanzi, debbo fare il processo della statua, nel processo del fantasma togato, che m'ispiro fin dai tempi della scuola.
Il poeta delle grazie latine, io lo concepii elegante nella toga orlata di porpora, altero dell'angusticlavio e degli altri distintivi dell'ordine equestre, fortunato con le donne, desiderato nei ritrovi geniali della Roma di Augusto.
Nei versi, intraducibili, come diceva il Manzoni, del cantore di Venere e delle Grazie, io vedevo rispecchiato e la pienezza dei tempi - una pienezza fatta di eleganze squisite e di civiltà raffinate - la rinascente cultura ellenica e la rigidità della linea romana.
Era un lavorio interno che doveva precedere di molti anni l'esecuzione dell'opera e Q. Orazio Flacco si affermava nella mia fantasia con tutti i pregi della gioventù e della bellezza; né in modo diverso avrei saputo concepirlo.
L'idea della statua oraziana si determinò nel mio cervello.
Io non sentii di aver bisogno di ritratti: i lineamenti del poeta avrei potuti rintracciarli negli esametri e nei pentametri.
Mi parve che la loro meravigliosa bellezza, nel concetto e nella forma, doveva essere nata in una testa armoniosamente bella, poggiata con forza e con grazia sopra un corpo elegante.
Il cavaliere mi si presentò con le seduzioni del sommo poeta, nella posa un poco molle, ma ancora vigorosa dei raffinati dell'ordine equestre.
La bella testa, la vidi spiccare nelle squisite movenze della toga ed il papiro tre le dita nervose mi pareva dovessero dare maggior risalto alla grazia delle mani.
Ben piantato sulle gambe, il poeta di bronzo doveva mostrare che il poeta vivo, era abituato a procedere con sicurezza nella sua via.
Accanto a questo leggiadro fantasma togato, vidi poi sorgerne un altro, come ci è tramandato dalla storia, come le biografie lo descrivono. Q Orazio Flacco, brutto, labbruto, cisposo, grasso, qualche cosa di meno di Trimalcione, con l'aria di pubblicano anziché di cavaliere.
Il disinganno fu grave, dolorosa la mia separazione dal fantasma greco romano che, in versi immortali aveva celebrato le bellezze della terra e quelle dell'Olimpo.
Svaniva, alla vista del volgare medaglione, il mistero amoroso dell'esilio, il personaggio togato decadeva nel plebeo tunicato, tozzo, guercio, panciuto.
La dolce poesia era un anacronismo, l'inno a Venere inesplicabile nello squilibrio di forme di fattezze del poeta.
L'antico ritratto della sua sbiadita volgarità raggiungeva lo scopo di distruggere, attraverso i secoli la forma ideale del poeta.
Che fare? L'Orazio che era nato nel mio cuore, più che nel mio cervello; il cavaliere profumato come i suoi versi; l'amabile cortigiano mollemente ravvolto nella toga bianca, altero del favore di Augusto, uno dei protagonisti del secolo d'oro, riportò vittoria.
Il vero, anzi, il brutto verismo, fu vinto dall'idealità e nacque quest'Orazio che ora presento, col dubbio dell'Artista, anzi del padre che si prepara a veder giudicato un figlio.
Vediamo un poco, o Signori, da quale concetto fu informata la scultura presso gli antichi.
Degli Egizii parlano chiaramente i Musei, figure allegoriche, storiche erotiche: ma tutte rese con la più alta idealità nella bellezza mistica dell'arte egizia.
Iside e Osiride sono le statue più misteriose dopo la Sfinge: ma sempre belle, della bellezza che parla al cuore con la voce di quella fede solenne ed austera che costituiva l'essenza religiosa dell'antico Egitto.
Presso i greci, la forma scultoria si venne perfezionando: le loro statue sono improntate al sentimento della forma, in modo, da farci concepire che, legge suprema dell'arte greca, fu la bellezza, e quindi la necessità di idealizzare il personaggio rappresentato, tanto da farne un prototipo di eleganze nella forma.
La pleiade delle divinità elleniche, l'antropomorfismo di quei nostri avoli, ora fonte di vera bellezza, di quella bellezza che altri secoli non giunsero ad eguagliare: ma queste forme divine, quest'alta idealità artistica, fu applicata anche alle creazioni terrene, uomini e cose, sicché noi troviamo il divino, tanto nella statua di Aristide e del Discobolo, quando nelle figure che ornano il Partenone: tutte ammirabili nella alta idealità di un arte che umanizzando il divino, rendeva divino l'umano.
Nell'arte scultoria i romani furono inferiori ai greci ma l'intento fu identico.
Non solo le statue degli Dei furono rappresentate con forme idealizzate: ma le figure dei Cesari e degli eroi, anche i meno virtuosi, furono rappresentati con le forme più elette dell'arte: quasi per affermare che quegli imperatori e quegli eroi furono tali anche dal lato della bellezza.
La superiorità intellettuale o di gradi sociale si manifestava in arte con una forma eletta ed aristocratica.
Passando a rassegna le statue dei Cesari, noi le vediamo modellate quasi in un tipo unico, Claudio o Eliogabalo, tutti con lo stesso carattere di bellezza nella figura.
Pare che gli artisti abbiano obbedito ad una parola d'ordine rappresentando il Cesare, e non Augusto, Claudio, Tiberio, Nerone o Settimio Severo, Cesari; più un mito che la riproduzione storica dei personaggi.
Erano cannoni artistici che i romani ereditavano dai greci; la rappresentazione del personaggio in alto grado, il sommo imperante, scevro da qualsiasi imperfezione, sintetizzando nella sua figura la potestà suprema, la suprema virtù: il dominatore, l'uomo di genio: tutto corretto, tutto elegante, tutto bello: un tipo anziché un uomo.
Trattandosi di un poeta del valore di Q Orazio Flacco i nostri antichi artisti non avrebbero esitato un momento a mettere in disparte il medaglione storico: al poeta delle Grazie avrebbero, certo, concesso le grazie della forma.
Eccovi dunque, o Signori, il mio Q Orazio Flacco, dico mio anche nel timore di non avervi potuto dare l'Orazio del vostro cuore e della vostra fantasia.
Mai avrei potuto rappresentarlo nelle forme delle natura madrigna, perché troppo radicata in me l'ammirazione per la divina bellezza della sua creazione poetica.
Ho dato corpo conveniente al mio fantasma?
Io non posso esser giudice dell'opera mia, siatelo voi, o Signori, ispirandovi a quell'amore dell'arte che nutrite vivissimo: a quell'imparzialità, senza preoccupazioni, propria degli uomini del vero merito, di quegli uomini che stanno all'alto della scala intellettuale, di quei maestri che, come dice un grande scrittore francese, si trovano insieme senza gradazione di merito, uniti nella ricerca del bello, del buono del vero.”
Achille D'Orsi (Napoli, 6 agosto 1845 – 8 febbraio 1929 - scultore)






Nessun commento:

Posta un commento