La mia Venosa

Descrivo in queste pagine la mia città, la mia Venosa.
Narro la Venosa che a me piace.
La Venosa storica e culturale; quella ricca di tradizioni e di valori.
Parlo della Venosa nella quale mi riconosco e nella quale sono cresciuto.
Questa è la Venosa che voglio cantare.

lunedì 30 gennaio 2017

Gli "Apostoli di Sant'Andrea" - San Tommaso

San Tommaso

Il dipinto è collocato in alto in fondo alla navata destra della Cattedrale di Venosa, al di sopra della cappella che ospita attualmente il coro ligneo, subito dopo la cappella del SS. Sacramento.

Il quadro fa parte, di una serie di dipinti attribuiti al pittore locale Giuseppe Pinto, quadri con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della Cattedrale, che rappresentano i SS. Apostoli.

Nel nostro quadro l’autore rappresenta Tommaso con il capo coperto da un vistoso cappuccio che non lascia intravvedere i capelli, presenta una bianca barba riccia e lunga; vestito con tunica blu ceruleo; un ampio mantello grigio ricopre gran parte del corpo dell’Apostolo.
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Ha uno sguardo serio e dubbioso.
Con la mano destra infatti, sembra voler evocare il passo evangelico, che lo rese protagonista per la sua incredulità nella resurrezione del Cristo (Gv 20, 19 – 25): “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.
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Con il braccio sinistro sorregge uno squadro, simbolo di precisione, puntigliosità e di solerzia, mentre la mano sorregge parte del mantello.
Il ciclo dei dipinti è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII.
Bisogna dire che i dipinti pur essendo di notevole fattura, purtroppo si apprezzano poco, perché collocati troppo in alto per ammirarne la bellezza e le caratteristiche, prima del restauro erano addirittura contornate da maestose cornici barocche.
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I quadri sembrano essere dipinti ad olio su tela.
Il ciclo dei quadri è composto da dodici dipinti delle medesime dimensioni, più uno notevolmente più grande che rappresenta Sant'Andrea, a cui la chiesa è dedicata.
San Tommaso nacque e visse in Galilea durante il primo secolo.
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Chiamato da Gesù tra i Dodici. Si presenta al capitolo 11 di Giovanni quando il Maestro decide di tornare in Giudea per andare a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro.
I discepoli temono i rischi, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: «Andiamo anche noi a morire con lui», deciso a non abbandonare Gesù.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità.
Lui è ben altro che un seguace tiepido.
Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia.
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Il dipinto comunica con chi lo guarda, ci parla delle difficoltà che l'Apostolo presenta, dei suoi dubbi e delle sue incredulità; ci dice della sua vera natura, ci mostra com'è, ci somiglia e ci aiuta a capire.
Tutto ciò traspare dal dipinto che il pittore G. Pinto ci ha tramandato.
Dopo la morte del Signore, sentendo parlare di risurrezione «solo da loro», esige di toccare con mano. Quando però, otto giorni dopo, Gesù viene e lo invita a controllare esclamerà: «Mio Signore e mio Dio!», (Gv 20, 19 – 25) come nessuno finora aveva mai fatto.
Tommaso significa “gemello” ed è detto anche Didimo.
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Il suo culto nacque in India, dove subì il martirio, si diffuse in origine in Asia minore e poi in Europa.
Prima di diventare apostolo era pescatore.
Tommaso è il santo protettore dei giudici, muratori, artisti, carpentieri e geometri.

La Chiesa festeggia l’Apostolo Tommaso il 3 luglio.

sabato 21 gennaio 2017

Le catacombe ebraiche di Venosa (PZ)


L’interno della collina della Maddalena, situata poco più di mezzo chilometro a nord del centro abitato di Venosa, ospita delle fila di incavi ottenuti scavando nella pietra tufacea della collina.
Si tratta di catacombe ebraiche, costruite dalla comunità ebraica venosina per ospitare le spoglie dei membri della comunità stessa.
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Le catacombe ebraiche di Venosa sono un’importante testimonianza del culto dei morti nella colonia ebraica dell’antica città romana tra i secoli IV e VI d.C.
La scoperta ufficiale delle catacombe si colloca al 1853, quando venne alla luce il primo complesso di catacombale, scavato nel fianco meridionale della collina della Maddalena, anche se altre fonti ne davano notizia già dal 1584 e nel 1842 fu visitato da D’Aloe, il quale trascrisse le iscrizioni visibili nelle grotte.
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Le stesse iscrizioni rinvenute in questo primo complesso furono studiate dapprima, nel 1880, dal linguista e glottologo Graziadio Isaia Ascoli e da Umberto Cassuto poi, nel 1944.
Le catacombe si presentano come una rete di cunicoli sotterranei organizzati intorno a tre corridoi principali dai quali si diramano una serie di piccoli vani laterali. 
Le pareti dei corridoi laterali sono occupate da piccole nicchie e loculi (cubicula) o si aprono in grotte di dimensioni più ampie che ospitano più sepolcri, sormontate da un arco che poteva essere intonacato o affrescato (arcosolium).
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Nel 1974, in seguito a nuove ricerche, fu scoperto un settore prima sconosciuto.
In esso spicca un arcosolio, una nicchia a forma di arco, riccamente affrescato, recante i simboli della religione ebraica quali la menorah, il candelabro a sette braccia, affiancata a destra dallo shofar, il corno, e dal lulav, la palma, ed a sinistra dall’etrog, il cedro, e da una fiala d’olio.
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Un saggio di scavo condotto nel 1981 da Cesare Colafemmina ha restituito un’altra porzione di catacombe, che si andava così ad aggiungere ad altre, scoperte dallo stesso Colafemmina negli anni 1972-1974, alcune delle quali cristiane, a dimostrazione della convivenza pacifica delle due comunità religiose.
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Un tempo questi numerosi complessi catacombali avevano con ogni probabilità dimensioni più ristrette di quelli che si presentano oggi come corridoi comunicanti.
La natura estremamente friabile della, infatti, ha modificato sostanzialmente la conformazione originale del sito in seguito a sismi e frane, e solo da poco le catacombe sono state per una parte riaperte al pubblico dopo anni di lavoro di consolidamento e di restauro.
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Le oltre 75 iscrizioni funerarie provenienti dalle catacombe, datate dal IV al IX secolo d.C., una delle quali è datata con esattezza al 521 d.C., ci restituiscono quello che è stato definito: «il migliore spaccato della società ebraica meridionale fra tarda Antichità e alto Medioevo» e ci consentono di trarre un’immagine piuttosto dettagliata sull’organizzazione interna della comunità ebraica venosina.
Le lingue usate nelle iscrizioni della grande catacomba sono la greca, la latina e l’ebraica, e a tali lingue e culture appartiene anche l’onomastica dei defunti.
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Molti epitaffi sono bilingui, ma è da notare che mentre nei pressi dell’ingresso sembra esclusiva la lingua greca, man mano che si procede verso l’interno il latino si alterna al greco sino a prevalere nettamente.
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Uno degli epitaffi più recenti, forse della fine del VI secolo, è in greco ma in caratteri ebraici.
I testi delle iscrizioni superstiti, come si diceva, offrono un’immagine abbastanza ricca dell’organizzazione comunitaria.
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Vi compaiono, infatti, l’arcisinagogo, i gherusiarchi, uno dei quali è anche archiatra, un didascalo, i presbiteri, i padri (patres) ed il padre dei padri (pater patrum).
Quest’ultimo titolo indicava forse una specie di decano o uno dei patres più benemeriti, benefattori della comunità.
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Circa i rapporti degli ebrei venosini con la città, due iscrizioni della “catacomba nuova”, databili alla fine IV- inizi V secolo, attribuiscono a due di essi, Aussanio e Marcello, il titolo di “patrono”, conferito a ricchi e influenti personaggi della città o del municipio, onorificenza poi interdetta agli ebrei nella prima metà del V secolo.
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Tuttavia di questa fiorente comunità ebraica non è stata ritrovata la sinagoga né abbiamo testimonianze sulla sua ubicazione nel tessuto urbano.
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La comunità ebraica prosperava dunque nell’epoca in cui si fa risalire la costruzione e l’uso delle catacombe, nel periodo cioè compreso tra il IV e il VI secolo d.C.
Ma secondo la tesi di Ernst Munkacsi già dalla tarda età repubblicana, I secolo a.C., esisteva a Venosa una prima comunità ebraica, di ceppo ellenistico, di liberi commercianti, poi accresciutasi in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e alla Diaspora del 135 d.C.
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La ricchezza della città e la sua posizione strategica all’incrocio tra la via Appia, crocevia di commerci, e la via Erculea, fecero la fortuna della comunità nel periodo imperiale fino alle soglie del Medioevo.
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Un sepolcro nelle catacombe rivestito in marmo, i pregiati affreschi, i titoli onorifici conferiti ai maggiorenti ebrei, provano la ricchezza della comunità e l’elevato status sociale dei membri della comunità, tra i quali comparivano proprietari terrieri, medici, commercianti e artigiani.
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Gli ebrei venosini vissero in agiatezza e in pacifica convivenza con la comunità cristiana e pagana della città, come testimoniano tra l’altro l’adozione di nomi greci e latini da parte di ebrei, fin quando nel 438 le leggi romane escluse dagli onori civili chi confessava la religione giudaica. Da allora, complice anche il ristagno dei commerci, cominciò il declino della comunità che però sopravvisse per molti secoli ancora.
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Gli "Apostoli di Sant'Andrea" - San Bartolomeo

Gli "Apostoli di Sant'Andrea" della Cattedrale di Venosa (PZ)

San Bartolomeo

San Bartolomeo viene raffigurato dal pittore Giuseppe Pinto mentre offre la sua vita per Cristo:
è dipinto svestito, privo di tunica e coperto in parte solo da un avvolgente mantello violaceo.
Ha capelli castani e scomposti, anche lui è rappresentato con una “calvizie ippocratica”, con barba folta bianca, dello stesso colore sono i capelli.
I suoi occhi sono rivolti al cielo.

La sua espressione è tipica di chi sta immolando la propria vita per qualcosa di sublime.
Il braccio destro è aperto lateralmente, mentre quello sinistro è stretto sul petto e con la mano sorregge un libro ed un coltello, infatti il suo simbolo di riconoscimento nell’iconografia classica è lo strumento del suo martirio, cioè il coltello, poiché fu scuoiato.


Egli nacque a Calia in Galilea nel I° secolo.
Morì verso la metà del I° secolo probabilmente in Siria.
Il vero nome dell'apostolo è Natanaele, che significa ”Dio ha donato”.
Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall'aramaico “bar”, figlio e “talmai”, agricoltore.
Bartolomeo giunse a Cristo tramite l'apostolo Filippo (Gv 1,43-51).
Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante (in Armenia, India e Mesopotamia).
Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi.


Bartolomeo fu condannato alla morte Persiana: fu scorticato vivo e poi crocifisso dai pagani.
La calotta cranica del martire Bartolomeo si trova dal 1238 nel duomo di San Bartolomeo, a Francoforte.
Il suo culto è venerato in modo particolare in India.
È evocato per un’epidemia di peste e le sue categorie di protezione sono i macellai, i conciatori e pellicciai.


La Chiesa festeggia l’Apostolo martire San Bartolomeo il 24 agosto.
Il dipinto è collocato in alto nella navata sinistra della Cattedrale di Venosa, al di sopra di una precedente cappella ora occupata da un confessionale, subito dopo l’altare della Madonna Immacolata.

Il quadro fa parte di una serie di dipinti con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della cattedrale, che rappresentano i SS. Apostoli.
Il ciclo è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII.

I quadri sono a figura intera e coperti con ampi panneggi.

sabato 7 gennaio 2017

Adorazione dei Magi (di Simone da Firenze)

Adorazione dei Magi (Simone da Firenze) - Cattedrale di Sant’Andrea - Venosa)

È un frammento di un affresco raffigurante l’Adorazione dei magi, del pittore Simone da Firenze, datato agli inizi XVI secolo. E' uno splendido frammento di un ciclo di dipinti murali, che il pittore fece in Basilicata e che rivela un disegno realizzato con chiarezza e delicato cromatismo.
L’affresco ci è pervenuto solo in parte, ciò che è visibile sono solo le figure di San Giuseppe, di Maria e del Bambino Gesù.
In primo piano è riprodotta Maria che regge sulle ginocchia il Bambinello.
Il suo viso è amorevolmente dolce, fresco, giovane ed aggraziato, con le gote rosee, il suo viso sembra ricordare quasi la Venere di Botticelli, capelli chiari, legati all’indietro e con dei ciuffi molto ricci e biondi che sfuggono alla presa e scendono con grazia ai lati del viso fino a coprirne le orecchie ed arrivare sul collo.
Con la mano sinistra regge delicatamente il Bambin Gesù seduto sulle sue ginocchia.
Indossa una veste di color rosso porpora, con maniche che oggi chiameremmo “a palloncino” i bordi della veste sono ornati da ricchissimi ornamenti e decorati con delle spille da balia.
All’occhio attento non sfuggono due piccoli ricami di colore bianco sul collo e all’estremità della manica di Maria.
Un velo bianco, quasi trasparente, raccoglie i capelli e scende sulle sue spalle, fino a legarsi con un vistoso fiocco sul petto. 
Al giro vita si nota ancora parte del velo bianco, raccolto in più punti con delle spille, a ricordarci che Lei è ancora una puerpera.
Il Bambinello è riprodotto nudo, ben nutrito, di un bel colore roseo, i suoi capelli sono ricci e biondi ed assume una posizione benedicente. Il suo sguardo sembra essere rivolto in basso verso i Re Magi, che se l’affresco fosse arrivato fino a noi, li avremmo visti dipinti probabilmente in ginocchio ed in atteggiamento di adorazione.
Alle spalle di Maria domina la figura di San Giuseppe. È dipinto con capelli e barba bianca, è raffigurato come un uomo di una certa età, non più giovanissimo. E’ insolitamente simile per iconografia a San Pietro.
Il suo guardo è rivolto e fisso al visitatore.
È enigmatico, pensieroso, non sembra essere nè sereno nè contento, anzi sembra alquanto turbato; forse lo è per ciò che ha appena sentito ed appreso dai Magi riguardo alle intenzioni del re Erode.
Non lo sapremo mai, infatti è in netto contrasto con l’atteggiamento della Madonna.
Ha una tunica color giallo sabbia e s’intravvede al collo uno spezzone bianco sotto-tunica.
È avvolto in un ampio mantello giallo oro, e sembra voler avvolgere, per difendere, con il suo manto tutta la sua Sacra Famigliola.
Giuseppe è in piedi alle spalle di Maria, con la mano destra, impugna un bastone con l'impugnatura ricurva, dal bastone spunta e rifiorisce un ramoscello di edera, che ne avvolge tutto il capo, a richiamare secondo me la profezia di Isaia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse”. Isaia 11,1- 4a: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese».
Le tre sacre figure ritratte sono caratterizzate da tre aureole; quella di Maria e di Giuseppe differiscono in poco, si notano anche dei filamenti dorati, mentre l’aureola del Bambino Gesù è raggiante, il nuovo “Sole” è appena nato.
Dietro la figura del serioso Giuseppe si intravvede la testa del Bue, che con l'asinello avrebbe dovuto completare l'intera scena.
Le caratteristiche salienti della pittura di questo frammento risiedono nel dinamismo e nella fluidità dell’intera struttura. Possiamo notare, da quel poco che ci è pervenuto, che il disegno è realizzato con determinata chiarezza e delicato cromatismo e, dinanzi alla sacralità dei soggetti, si assiste ad un’alternanza di incantato lirismo ed una potente drammaticità.

Simone da Firenze è un artista del XVI sec.
Le origini e la prima formazione sono fiorentine, la sua formazione artistica proviene certamente da Scuola Umbra. Attivo nella prima metà del ’500, Simone da Firenze irrompe nel panorama artistico della Basilicata con la sua formazione prevalentemente classicista. La sua formazione artistica e culturale infatti, si fonda sui modelli dell’ultimo ventennio del Quattrocento fiorentino, quali Botticelli, Ghirlandaio e Filippino Lippi e soprattutto di Raffaello.
A Venosa Simone da Firenze dipinge un affresco, l’Adorazione dei Magi appunto; lo dipinge sul muro di quello che doveva essere una cappella laterale, posta a metà della navata di sinistra della nuova Cattedrale di Pirro del Balzo.
Oggi dell’intero affresco non rimane che questo piccolo ma intenso frammento.
La sua operosità in Basilicata del pittore fiorentino è documentata da altre opere che sono visibili non solo qui a Venosa ma anche ad Acerenza, ad Armento e a Potenza, è da sottolineare che molti artisti locali hanno subìto negli anni la sua ispirazione e la sua influenza artistica.