La mia Venosa

Descrivo in queste pagine la mia città, la mia Venosa.
Narro la Venosa che a me piace.
La Venosa storica e culturale; quella ricca di tradizioni e di valori.
Parlo della Venosa nella quale mi riconosco e nella quale sono cresciuto.
Questa è la Venosa che voglio cantare.

sabato 28 ottobre 2017

‘U forn’ de zizì Maurocc’.

Negli anni ’60 in piazza San Pietro qui a Venosa esisteva un vecchio forno, era il tempo in cui il pane si impastava ancora a mano e lo si cuoceva nel forno a legna.

Il forno era gestito da mio zio Mauro, per tutti era Maurocc' 'u furnar' (al secolo Mauro Solimano).
Quella antica piazzetta del centro storico era, fino quei tempi, uno dei punti nevralgici del paese.
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Piazza San Pietro era meglio conosciuta come “la chiazz d’ lu pesc’ ” (piazza del pesce); infatti oltre al forno di zio Mauruccio, al centro della piazzetta si svolgeva il mercato del pesce; c’erano anche due botteghe di calzolai: la “peteje” (bottega) d’ Mastr’ Fael’ (al secolo Raffaele Russo) detto Mericanidd’ ‘u scarpar’ e quella d’ ‘u maup’ (alias Siviglia, chiamato così poiché era muto dalla nascita). 
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Più che botteghe erano due sgabuzzini molto angusti, ma strapieni di vecchie cianfrusaglie, scarpe e di utensili per il lavoro da calzolaio; tanto è vero che i due artigiani spesso, per avere più spazio, svolgevano il loro lavoro fuori dal locale, in mezzo alla strada.
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Visti i tempi di crisi e di povertà tra i due vigeva anche una sorta di sana rivalità e competizione.

Il forno di piazza San Pietro era piccolo ma accogliente.
In inverno, alle prime luci dell’alba per il freddo sostavano diverse persone all’interno del locale, che non avendo un luogo più caldo, si davano appuntamento lì anche se per una breve sosta: il metronotte, i guardiani, cacciatori, netturbini ed altre persone.

Io ero piccolo ed al forno ci andavo spesso con mia madre, perché anche lei faceva il pane in casa, per cui sono molto belli e vividi in me questi lontani, ma cari ricordi.
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Mio zio Maurocc’ a volte si avvaleva della collaborazione di altri “furnar” (fornai), come “Cusemain” (Cosimino Carlone) e mio padre stesso, “Saverie” (Saverio Giaculli).
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La giornata per zizì Maurocc’ e gli altri “furnar” cominciava molto presto, intorno alle 4 del mattino, poiché c’era da “accendere” il fuoco, che consisteva nel scendere a ‘u ‘mbirn’ (che era il luogo del retrobottega chiamato appunto l’ inferno, dove solo il fornaio-fochista aveva accesso) ed alimentare il fuoco del forno con fascine consistenti di legna o con secchi di sansa, per circa un paio d’ore.

Si lavorava sodo, senza sosta. 
Ognuno aveva il suo ruolo.
Si lavorava soprattutto per conto terzi, raramente si vendeva del pane ai negozi, poiché il pane, a quei tempi lo si faceva esclusivamente a mano in casa.
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Nell’arco di tutta la preparazione ‘u furnar’ dosava, pesava, versava, contava, confrontava, tutto a memoria; calcoli e tempi segnati più con l’esperienza che con la bilancia; poiché c’era da rispettare la quantità di farina versata a sacchi nella impastapane, la quantità d’u’ crescent’ (il lievito), calcolare quindi i tempi di lievitazione, la temperatura del forno ed infine i tempi di cottura.

Era una corsa contro il tempo, fatta di gesti sperimentati; gesti collaudati, sempre uguali, sempre gli stessi negli anni e nel tempo.
Come dicevo prima, ognuno aveva il suo ruolo: chi alimentava il fuoco, chi impastava, chi infornava, chi sfornava e chi metteva l’ panedd’ (le panelle o pagnotte da 2-3 kg) nelle rispettive ceste.
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Era come una catena di montaggio che nessun robot oggi avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “, tanta era la velocità, che solo l’occhio attento ed esperto riusciva a non confondere le panelle di pane di una proprietaria dall’altra.

C’era un gran profumo, ma anche un gran caldo.
Anche le massaie che nel giorno stabilito “facevano” il pane, si alzavano all’alba per impastare il pane e dargli il tempo di riposare per la lievitazione.
Tutto doveva essere pronto per l’arrivo du’ furnar’.

All’alba i furnar’ iniziavano il loro giro per il paese a raccogliere il pane.
I primi tempi erano muniti d’ la trainell' (ovvero un carretto) poi ch’ lu’ trerrot’ (il tre ruote, il motocarro) adattato con apposite sponde al trasporto “d’ l’ panedd’ “ d’ pan’.
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Nei vicoli più angusti e stretti ci andavano a piedi, portando a spalla le tavole piene di pasta lievitata contenuta in avvolgenti tovaglioli detti “stiavocch’ “.

Le panelle di allora, essendo fatte tutto in casa ed a mano, avevano forme e pesi diversi, ed anche per questo si distinguevamo le une da le altre.
Tipico era il grido du’ furnar’ per richiamare di buon mattino le donne e le massaie, ognuno aveva il suo fischio o verso di riconoscimento.

Raccolto tutto il pane, era tempo di infornalo. Le panelle di pasta venivano rimosse singolarmente dai tovaglioli con gesti sapienti e collaudati e messi sulla lunga pala di legno e prima di essere infornate mio zio tracciava con la “rusulecchje” (spatola) su ogni singola papanella una croce, in segno di benedizione.
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Di tanto in tanto mio zizì Maurocc’ sbirciava all’interno del forno se tutto procedesse bene, fino al termine della cottura; sua infatti era la responsabiltà della cottura e dalla qualità del prodotto dipendeva il suo guadagno ed il suo profitto economico.

La temperatura per cuocere il pane oscillava tra i 200 e i 250° C.
Trascorso il tempo necessario le panelle di pasta bianca si indoravano, il pane era cotto.
Era giunto il momento di sfornare.
Si preparavano i cesti ed i tavolacci.
La temperatura all’interno del locale era elevata, c’era un gran caldo.
Ora la collaborazione tra i fornai era determinante.
Tutto diventava veloce.

Zizì Maurocc’ con la sua lunga pala di legno sfornava il pane e lo riponeva in cesti di vimini; un altro lo prendeva con le mani callose e lo riponeva sui tavolacci attaccati al muro.

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Io con i miei occhi di bambino ero incuriosito dai calli durissimi delle loro mani, ero impressionato dal fatto che non si ustionassero, ero meravigliato da come loro prendessero le panelle bollenti appena sfornate e le riponevano sui tavolacci.
Era una fase molto delicata.
Guai ad intralciare il lavoro dei furnar’ in quei momenti, ci andava di mezzo l’incolumità del malcapitato, accompagnato ad un ricco elenco di imprecazioni ed di bestemmie.

Era, come dicevo sopra, come una catena di montaggio che nessun robot oggi avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “, tanta era la velocità, che solo l’occhio attento ed esperto e la loro maestria riusciva a non confondere le panelle di una proprietaria dall’altra.

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Nei miei ricorsi di bambino ricordo che di tanto in tanto, durante questa fase, si staccassero involontariamente dal bordo del pane delle sottili fettine di mollica, chiamate “petait’ “ (pepite), erano molto appetitose perchè calde, morbide e profumate.
C’era un gran profumo ma anche un gran caldo.
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Ricordo che il profumo del pane appena sfornato era inebriante, poi in alcune occasioni si infornavano anche dei “tiani” di “coc’l’ , cioè tegami di focaccia al pomodoro, condita con un filo d’olio, qualche oliva ed un pizzico di origano.
Nulla a che vedere con la pizza di oggi.

Nella ricorrenza del Natale e di Pasqua il profumo del pane fresco si accentuava notevolmente e si mescolava ad altro; il fornaio era costretto a fare gli straordinari, poiché non solo bisognava cuocere il pane ma anche i biscotti tipiti tradizionali venosini: i "raffajul’ " , i taralli, detti “taradd' scaud't' “ nonché per i “pizzicannelli” e non mancavano mai neppure le tortiere di “vr’dett’ “ cioè brodetto (una pietanza fatta con cardoni, uova e carne, tipica del periodo pasquale) e le tortiere di patate al forno.
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Anche le paste per i matrimoni venivano preparate in "tiani" (tegami) ed infornate qui.
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Tra le ore 15.00-16.00 si ripeteva al contrario il giro per il paese per la consegna del pane alle rispettive massaie.
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Oggi, quando provo a raccontare questi miei ricordi di fanciullo alle nuove generazioni, alcuni mi ascoltano con attenzione, altri mi sorridono meravigliati, altri ancora mi guardano increduli, credendo che tutto ciò sia di un altro mondo; ed hanno ragione: tutto ciò che ho raccontato appartiene ad un mondo ormai passato; un mondo molto più povero di quello di oggi, ma più semplice, più modesto, più concreto e rispettoso di tutto.
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Davvero erano altri tempi!

martedì 10 ottobre 2017

Ottobre A.D. 1297

Successe ad ottobre di alcuni secoli fa...

di Antonietta Mollica. 
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