La mia Venosa

Descrivo in queste pagine la mia città, la mia Venosa.
Narro la Venosa che a me piace.
La Venosa storica e culturale; quella ricca di tradizioni e di valori.
Parlo della Venosa nella quale mi riconosco e nella quale sono cresciuto.
Questa è la Venosa che voglio cantare.

mercoledì 27 dicembre 2017

Gli "Apostoli di Sant'Andrea": San Giovanni l'Evangelista.


27 gennaio - Ricorrenza della festa di San Giovanni l'Evangelista.

Gli "Apostoli di Sant'Andrea"
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Entrando nella Cattedrale di Venosa (PZ) tra le opere che attirano l’attenzione del visitatore è Il ciclo dei quadri che ritraggono gli apostoli, composto da dodici dipinti delle medesime dimensioni, più uno notevolmente più grande, raffigurante appunto Sant’Andrea.
il dipinto di Sant’Andrea, alla quale è dedicata questa chiesa.
Nel dipinto del pittore locale Giuseppe Pinto, collocato in alto al di sopra della cappella cinquecentesca del SS Sacramento sulla navata di destra, è rappresentato l’Apostolo Giovanni, il prediletto di Gesù.
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Ci sono due raffigurazioni comuni dell'apostolo Giovanni: come il "discepolo amato" e come "il Teologo".
Nel nostro caso San Giovanni è raffigurato di aspetto giovanile, di età poco più di sedici anni, con lunghi capelli biondi, mossi e imberbe, sguardo rivolto al cielo, la mano destra benedicente e reca nella mano sinistra un calice.
Indossa una tunica azzurra cobalto e un ampio mantello color rosso porpora avvolge l’intera figura.
Egli nacque in Palestina nel I° secolo d.C. da Zebedeo e Salomea e fu fratello di Giacomo maggiore, con cui faceva il pescatore sulla nave del padre.L'immagine può contenere: una o più persone
Giovanni oltre ad essere apostolo fu anche evangelista e gli sono attribuiti il libro dell’Apocalisse, il IV vangelo e tre Lettere che narrano i fatti di cui era stato testimone.
Giovanni era il più giovane degli apostoli e il più vicino a Gesù tanto che alla sua morte prese in custodia sua madre Maria.
Menzionato nel Vangelo in molte scene della vita di Cristo, ad esempio, la Trasfigurazione, la Crocifissione, o quelli raffigurati negli Atti degli Apostoli , come ad esempio, l'Ascensione o Pentecoste.
Il nome Giovanni è derivante dall’ebraico e significa “dono del Signore” o “Dio ha avuto misericordia”, probabilmente quest’ultimo significato deriva dal fatto che egli scampò alla morte dopo un’immersione in un calderone pieno di olio bollente.
Scampato alla morte diverse volte, venne esiliato a Patmos ed è l’unico Apostolo che morì di morte naturale nell’85 d.c.Nessun testo alternativo automatico disponibile.
È considerato protettore di molte categorie: dei librai, dei scrittori, dei teologi, degli artisti, dei cartolai e dei tipografi; ed infine delle vergini, delle vedove, degli ustionati e di tutti coloro che hanno a che fare con olio; questo in analogia all’avvenimento che avrebbe potuto causargli la morte.
I suoi simboli di riconoscimento sono l’aquila, in richiamo all’inizio del suo vangelo, il libro, in quanto a lui sono attribuiti alcuni scritti ed il calice.
Nelle rappresentazioni delle varie ultime cene siede alla destra di Gesù e riposa sul suo petto.
Il quadro fa parte, di una serie di altri dipinti attribuiti sempre allo stesso autore, quadri con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della Cattedrale di Venosa (PZ) e rappresentano i SS. Apostoli.L'immagine può contenere: 2 persone, spazio al chiuso
I quadri sono dipinti ad olio su tela. Il ciclo dei dipinti, come dicevamo sopra, è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operativo a Venosa nel XVII secolo.
Il ciclo dei quadri, come dicevo sopra, è composto da dodici dipinti delle medesime dimensioni, più uno notevolmente più grande che rappresenta Sant'Andrea, a cui la chiesa è dedicata.
Bisogna dire che i dipinti pur essendo di notevole fattura, purtroppo si apprezzano poco, perché collocati troppo in alto per ammirarne la bellezza e le caratteristiche, prima del restauro erano addirittura contornate da maestose cornici barocche.
Nessun testo alternativo automatico disponibile.

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domenica 24 dicembre 2017

Maria, Arca della Nuova Alleanza e Vergine Figlia di Sion.

Questo è il tema del nostro presepe di quest’anno.
A questo tema ci siamo ispirati.

Questo è il significato del nostro presepe e del nostro albero di Natale.
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«L'arca d'Israele era di legno ma placcata d'oro all'interno e all'esterno.
Presso il popolo d'Israele l'oro e il legno simboleggiavano l'unione della divinità con l'umanità.
L'arca placcata d'oro all'interno e all'esterno è simbolo di Maria, la santa madre di Dio:
al di fuori significava l'impassibilità di Maria, lontana da ogni impurità e spudoratezza femminile;
l'oro all'interno indicava lo Spirito Santo, che doveva abitare in tutto il suo intimo».
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Potrei continuare a lungo, con Padri della Chiesa celebri e scrittori cristiani poco noti, nelle applicazioni mariane attribuite all'arca dell'alleanza tra Dio e Israele, il santuario mobile del deserto, traslato poi da Davide a Gerusalemme (la «Città di Davide»), per attribuire alla sua nuova capitale un avallo anche sacrale.
Nel pellegrinaggio narrato in 2 Samuele, 6, l'arca rivela la sua energia sacra, invalicabile ai profani e accessibile solo ai sacerdoti.
Di fronte a questa rivelazione del "tremendum" insito nella maestà divina, Davide reagisce con un'esclamazione stupita: «Come potrà venire da me l'arca del Signore?!».
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Questa esclamazione rivela un parallelismo significativo con l'esclamazione di Elisabetta di fronte a Maria («A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Luca 1,43).
E questo forse il centro della comparazione tra l'arca dell'alleanza, sede della presenza di Dio, e Maria, sede in Cristo della perfetta presenza divina in mezzo agli uomini.
Luca presenta Maria come l'arca della nuova alleanza, accompagnata nel viaggio da manifestazioni di gioia ed esultanza.
Maria è il luogo privilegiato dell'epifania di Dio, in lei ci viene mostrato e offerto il Salvatore del mondo.
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È colei «che ha racchiuso nel suo ventre verginale e santo colui che è incontenibile»
(Cirillo d'Alessandria), è l'«arca dell'alleanza che dentro di sé porta Dio stesso» (Romano il Melode).
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MARIA, VERGINE FIGLIA Dl SION
Madre di Dio

Dal libro del profeta Sofonia:
«Gioisci, figlia di Sion, rallegrati, Israele,
gioisci ed esulta di tutto cuore, figlia di Gerusalemme:
Il Signore ha cancellato i decreti della tua condanna,
ha sviato altrove il nemico.
Il Signore, re d'Israele, è in mezzo a te,
non avrai più da temere la sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme:
«Non temere, Sion, non ti lasciar cadere le mani!
Il Signore tuo Dio è in mezzo a te,
egli è un guerriero che salva!
Egli esulterà di gioia per te, ti rinnoverà col suo amore;
danzerà per te, giubilando, come nei giorni di festa».
Sofonia 3,14-18.

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mercoledì 20 dicembre 2017

Hic sunt leones - Panta rhei

Dal sito FB: Vicolè
[Venosa e la sua Storia]
📸 Tenerissima la foto di Saverio Giaculli 😍
14 anni in in solo scatto.
Trattandosi della stessa persona.
Panta rei.
Tutto passa, passano gli anni, cambiano le persone, ma i leoni sono sempre lì.


👉 Lui l'ha denominata "Panta rhei", "tutto scorre", dal celebre aforisma attribuito a Eraclito. E' così: il tempo passa, scorre come l'acqua di un fiume, ma la Storia - con le sue testimonianze sparse per il mondo - sarà sempre un ponte tra passato e presente ❤️

martedì 19 dicembre 2017

Hic sunt leones - Venosa - Cattedrale: leoni alati

Dal post di Vicolè.
[ Venosa e la sua Storia ]
🔍 Due leoni alati fantastici scovati dal nostro prezioso ed instancabile amico @Vincenzo Giaculli
👉 Siamo nella Cattedrale di Sant’Andrea di Venosa ed i due leoni alati magnifici, nascosti ai più, sono collocati in una celletta di una cappella laterale all’interno di essa.
🤠 Vincenzo ci illustra che “i due leoni sono scolpiti su una lastra di marmo abbastanza grande che sembrerebbe facesse parte di una vasca o una fontana, visto che dalla bocca delle due fiere fuoriescono due tubi simili a rubinetti e visto che al di sotto è collocato anche uno scolo sempre in pietra.
Le due forme leonine fanno da cornice in modo speculare e simmetrico ad uno stemma episcopale, raffigurante una colomba.
Nella stessa celletta al di sopra dell’architrave vi è riportata scolpita una data 1657, insieme al nome del vescovo di Venosa di quell’anno: “FHY TAURIUSUS EPS VEN”.
🦁 Il contest fotografico HIC SUNT LEONES sta per terminare !! Cosa aspetti ad inviare il tuo scatto entro domani ?!! 📸

mercoledì 13 dicembre 2017

I leoni di Peppino.

Mi sembra giusto e doveroso rendere omaggio a colui che per primo, già nel 2014 realizzò un reportage, tanto breve ma altrettanto intenso, sui leoni "venosini":
al mio amico Peppino Orlando.
Io lo ricordo bene, perché in quel periodo collaboravo con lui, in quell'occasione gli feci notare scherzosamente che gli erano “scappati” dei leoni, ed egli, conoscendomi bene e sapendo la mia passione per l’arte, la storia e la fotografia, mi invitò ad “acchiapparli” e di portare a terminare questo compito.
Io lo feci, ma allora non pubblicai nulla, l’ho fatto oggi.
Amo la mia Venosa così come l'amava Peppino ed io da lui ho imparato anche tanto.
A Peppino con stima ed affetto.

giovedì 7 dicembre 2017

giovedì 30 novembre 2017

Hic sunt leones - Venosa: Cappella del SS Sacramento

Dal sito fb: Vicolè

[ Venosa e la sua Storia ]
🧐 Un leone davvero inedito quello scovato da Vincenzo Giaculli
👉 Insieme ad altri, questo leone fa parte del portale d’ingresso alla cappella del Santissimo Sacramento all'interno della Concattedrale di Sant'Andrea apostolo. L'edificio fu eretto per volere del duca Pirro del Balzo, responsabile della mutazione urbanistica di #Venosa durante gli ultimi decenni del #Quattrocento. Il duca, divenuto signore della città, ottenne il permesso dal vescovo di demolire l'antica cattedrale per costruirvi il castello, essendo il punto più vulnerabile della città e il più soggetto ad attacchi. Come d'accordo, Pirro del Balzo si impegnò per progettare la costruzione di una nuova cattedrale.
💡 Mentre i lavori per il castello procedettero a ritmi costanti, quelli della cattedrale, iniziati nel 1470, vennero conclusi più di trent'anni dopo (nel 1502) e la costruzione fu consacrata il 12 marzo 1531. Ciononostante, la struttura era ancora incompleta del campanile, la cui elaborazione iniziò nel 1589 per ordine del vescovo Rodolfo di Tussignagno, fu continuata nel 1614 da Andrea Perbenedetti e terminata nel 1714.
😎 Il contest fotografico HIC SUNT LEONES aspetta il tuo scatto! 📸
(Autore)
Ho constatato che nella vasta “savana storica” del nostro territorio e della nostra storia i leoni non mancano.
Ve ne sono di varia specie, natura e grandezza; alcuni famosissimi ed arciconosciuti, come quelli del Castello, della Villa, della Trinità e nonché della Fontana Angioina, altri meno conosciuti o addirittura sconosciuti, e sono questi quelli che destano la mia attenzione e curiosità. 
Questi leoni non sono molto famosi e conosciuti, tanto che ai più passano inosservati, ma sono altrettanto belli.
Fanno parte della raffigurazione rinascimentale del portale d’ingresso alla cappella del SS Sacramento della Cattedrale di Sant’Andrea del 1520.
L'arco è decorato con putti, medaglioni, festoni, figure allegoriche e leoni, scolpiti in pietra scura arenaria.
Sull’intero architrave è scolpito un festone riproducente oltre ai simboli eucaristici IHS una serie di sei leoni “leopardati”; poi ancora sotto l’arco rinascimentale, all’apice dei due stipiti laterali, campeggiano le teste di altri due leoni di fattura molto egregia (uno dei quali è riprodotto in foto).

sabato 25 novembre 2017

SS Trinità - Venosa: Santa Caterina di Alessandria

Dal sito fb: Abbazia della Ss. Trinità di Venosa si trova qui: 
Abbazia della Ss. Trinità di Venosa.
25 novembre alle ore 9:25Venosa
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Oggi si festeggia Santa Caterina d’Alessandria, martire della Chiesa cattolica e ortodossa.
La Santa è raffigurata nell’affresco forse più prezioso della Chiesa Antica. 
Regale e maestosa, con una corona in testa a sottolineare la sua origine principesca, poggia una mano sulla ruota dentata, strumento del suo martirio. 
Protettrice di sarte, vasai, donne nubili, studenti, insegnanti, giuristi...
Connessa anche alla variazione stagionale:
“Per S. Caterina o neve o brina. 
Per S. Caterina manicotto e casettina” 😊.
Quella della Trinità pare emblema dell’ideale femminile del Trecento... connessa alla raffinata cultura della corte Angioina, in cui si inseriva la Trinità di Venosa.

venerdì 24 novembre 2017

Hic sunt leones - Inno alla Bellezza: di Giusy Giaculli

Dal sito fb   Vicolè
[Venosa e la sua Storia]
🤠 Ecco l'inno alla Bellezza di Giusy Giaculli 
😍
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👉 Siamo all'esterno dell’Abbazia della Santissima Trinità, chiesa #Incompiuta.
💡 Il tempio incompiuto, il cui ingresso è sormontato da un arco semicircolare impreziosito dal simbolo dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, si presenta di dimensioni grandiose tanto da coprire una superficie di 2073 metri quadrati.
L’impianto è a croce latina, con transetto molto sporgente nei cui bracci sono ricavate due absidiole orientate.
L’interno è caratterizzato dalla presenza di molti conci di pietra provenienti dal vicino anfiteatro romano (epigrafe latina che ricorda la scuola gladiatoria venosina di Silvio Capitone, un bassorilievo raffigurante una testa di Medusa, ecc.).
La crisi in cui precipitò il monastero benedettino, subito dopo l’inizio dei lavori di ampliamento, fu certamente la causa della interruzione degli stessi che non vennero mai portati a termine.
😎 Il contest fotografico HIC SUNT LEONES aspetta il tuo scatto! 📸

sabato 28 ottobre 2017

‘U forn’ de zizì Maurocc’.

Negli anni ’60 in piazza San Pietro qui a Venosa esisteva un vecchio forno, era il tempo in cui il pane si impastava ancora a mano e lo si cuoceva nel forno a legna.

Il forno era gestito da mio zio Mauro, per tutti era Maurocc' 'u furnar' (al secolo Mauro Solimano).
Quella antica piazzetta del centro storico era, fino quei tempi, uno dei punti nevralgici del paese.
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Piazza San Pietro era meglio conosciuta come “la chiazz d’ lu pesc’ ” (piazza del pesce); infatti oltre al forno di zio Mauruccio, al centro della piazzetta si svolgeva il mercato del pesce; c’erano anche due botteghe di calzolai: la “peteje” (bottega) d’ Mastr’ Fael’ (al secolo Raffaele Russo) detto Mericanidd’ ‘u scarpar’ e quella d’ ‘u maup’ (alias Siviglia, chiamato così poiché era muto dalla nascita). 
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Più che botteghe erano due sgabuzzini molto angusti, ma strapieni di vecchie cianfrusaglie, scarpe e di utensili per il lavoro da calzolaio; tanto è vero che i due artigiani spesso, per avere più spazio, svolgevano il loro lavoro fuori dal locale, in mezzo alla strada.
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Visti i tempi di crisi e di povertà tra i due vigeva anche una sorta di sana rivalità e competizione.

Il forno di piazza San Pietro era piccolo ma accogliente.
In inverno, alle prime luci dell’alba per il freddo sostavano diverse persone all’interno del locale, che non avendo un luogo più caldo, si davano appuntamento lì anche se per una breve sosta: il metronotte, i guardiani, cacciatori, netturbini ed altre persone.

Io ero piccolo ed al forno ci andavo spesso con mia madre, perché anche lei faceva il pane in casa, per cui sono molto belli e vividi in me questi lontani, ma cari ricordi.
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Mio zio Maurocc’ a volte si avvaleva della collaborazione di altri “furnar” (fornai), come “Cusemain” (Cosimino Carlone) e mio padre stesso, “Saverie” (Saverio Giaculli).
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La giornata per zizì Maurocc’ e gli altri “furnar” cominciava molto presto, intorno alle 4 del mattino, poiché c’era da “accendere” il fuoco, che consisteva nel scendere a ‘u ‘mbirn’ (che era il luogo del retrobottega chiamato appunto l’ inferno, dove solo il fornaio-fochista aveva accesso) ed alimentare il fuoco del forno con fascine consistenti di legna o con secchi di sansa, per circa un paio d’ore.

Si lavorava sodo, senza sosta. 
Ognuno aveva il suo ruolo.
Si lavorava soprattutto per conto terzi, raramente si vendeva del pane ai negozi, poiché il pane, a quei tempi lo si faceva esclusivamente a mano in casa.
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Nell’arco di tutta la preparazione ‘u furnar’ dosava, pesava, versava, contava, confrontava, tutto a memoria; calcoli e tempi segnati più con l’esperienza che con la bilancia; poiché c’era da rispettare la quantità di farina versata a sacchi nella impastapane, la quantità d’u’ crescent’ (il lievito), calcolare quindi i tempi di lievitazione, la temperatura del forno ed infine i tempi di cottura.

Era una corsa contro il tempo, fatta di gesti sperimentati; gesti collaudati, sempre uguali, sempre gli stessi negli anni e nel tempo.
Come dicevo prima, ognuno aveva il suo ruolo: chi alimentava il fuoco, chi impastava, chi infornava, chi sfornava e chi metteva l’ panedd’ (le panelle o pagnotte da 2-3 kg) nelle rispettive ceste.
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Era come una catena di montaggio che nessun robot oggi avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “, tanta era la velocità, che solo l’occhio attento ed esperto riusciva a non confondere le panelle di pane di una proprietaria dall’altra.

C’era un gran profumo, ma anche un gran caldo.
Anche le massaie che nel giorno stabilito “facevano” il pane, si alzavano all’alba per impastare il pane e dargli il tempo di riposare per la lievitazione.
Tutto doveva essere pronto per l’arrivo du’ furnar’.

All’alba i furnar’ iniziavano il loro giro per il paese a raccogliere il pane.
I primi tempi erano muniti d’ la trainell' (ovvero un carretto) poi ch’ lu’ trerrot’ (il tre ruote, il motocarro) adattato con apposite sponde al trasporto “d’ l’ panedd’ “ d’ pan’.
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Nei vicoli più angusti e stretti ci andavano a piedi, portando a spalla le tavole piene di pasta lievitata contenuta in avvolgenti tovaglioli detti “stiavocch’ “.

Le panelle di allora, essendo fatte tutto in casa ed a mano, avevano forme e pesi diversi, ed anche per questo si distinguevamo le une da le altre.
Tipico era il grido du’ furnar’ per richiamare di buon mattino le donne e le massaie, ognuno aveva il suo fischio o verso di riconoscimento.

Raccolto tutto il pane, era tempo di infornalo. Le panelle di pasta venivano rimosse singolarmente dai tovaglioli con gesti sapienti e collaudati e messi sulla lunga pala di legno e prima di essere infornate mio zio tracciava con la “rusulecchje” (spatola) su ogni singola papanella una croce, in segno di benedizione.
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Di tanto in tanto mio zizì Maurocc’ sbirciava all’interno del forno se tutto procedesse bene, fino al termine della cottura; sua infatti era la responsabiltà della cottura e dalla qualità del prodotto dipendeva il suo guadagno ed il suo profitto economico.

La temperatura per cuocere il pane oscillava tra i 200 e i 250° C.
Trascorso il tempo necessario le panelle di pasta bianca si indoravano, il pane era cotto.
Era giunto il momento di sfornare.
Si preparavano i cesti ed i tavolacci.
La temperatura all’interno del locale era elevata, c’era un gran caldo.
Ora la collaborazione tra i fornai era determinante.
Tutto diventava veloce.

Zizì Maurocc’ con la sua lunga pala di legno sfornava il pane e lo riponeva in cesti di vimini; un altro lo prendeva con le mani callose e lo riponeva sui tavolacci attaccati al muro.

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Io con i miei occhi di bambino ero incuriosito dai calli durissimi delle loro mani, ero impressionato dal fatto che non si ustionassero, ero meravigliato da come loro prendessero le panelle bollenti appena sfornate e le riponevano sui tavolacci.
Era una fase molto delicata.
Guai ad intralciare il lavoro dei furnar’ in quei momenti, ci andava di mezzo l’incolumità del malcapitato, accompagnato ad un ricco elenco di imprecazioni ed di bestemmie.

Era, come dicevo sopra, come una catena di montaggio che nessun robot oggi avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “, tanta era la velocità, che solo l’occhio attento ed esperto e la loro maestria riusciva a non confondere le panelle di una proprietaria dall’altra.

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Nei miei ricorsi di bambino ricordo che di tanto in tanto, durante questa fase, si staccassero involontariamente dal bordo del pane delle sottili fettine di mollica, chiamate “petait’ “ (pepite), erano molto appetitose perchè calde, morbide e profumate.
C’era un gran profumo ma anche un gran caldo.
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Ricordo che il profumo del pane appena sfornato era inebriante, poi in alcune occasioni si infornavano anche dei “tiani” di “coc’l’ , cioè tegami di focaccia al pomodoro, condita con un filo d’olio, qualche oliva ed un pizzico di origano.
Nulla a che vedere con la pizza di oggi.

Nella ricorrenza del Natale e di Pasqua il profumo del pane fresco si accentuava notevolmente e si mescolava ad altro; il fornaio era costretto a fare gli straordinari, poiché non solo bisognava cuocere il pane ma anche i biscotti tipiti tradizionali venosini: i "raffajul’ " , i taralli, detti “taradd' scaud't' “ nonché per i “pizzicannelli” e non mancavano mai neppure le tortiere di “vr’dett’ “ cioè brodetto (una pietanza fatta con cardoni, uova e carne, tipica del periodo pasquale) e le tortiere di patate al forno.
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Anche le paste per i matrimoni venivano preparate in "tiani" (tegami) ed infornate qui.
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Tra le ore 15.00-16.00 si ripeteva al contrario il giro per il paese per la consegna del pane alle rispettive massaie.
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Oggi, quando provo a raccontare questi miei ricordi di fanciullo alle nuove generazioni, alcuni mi ascoltano con attenzione, altri mi sorridono meravigliati, altri ancora mi guardano increduli, credendo che tutto ciò sia di un altro mondo; ed hanno ragione: tutto ciò che ho raccontato appartiene ad un mondo ormai passato; un mondo molto più povero di quello di oggi, ma più semplice, più modesto, più concreto e rispettoso di tutto.
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Davvero erano altri tempi!