Il Filippo
del nostro ciclo è dipinto nell’atto di accettazione della croce e quindi del
martirio.
Ha capelli
chiari e corti con barba dello stesso colore, vestito con tunica color
melograno e mantello azzurro ceruleo.
Stringe
nella mano sinistra un’asta alla cui sommità c’è la croce.
Filippo
deriva dal greco e significa “amante dei cavalli”.
Egli era
originario di Betsaida e nacque nel primo secolo a.C.
Egli
collaborò alla stesura degli Atti degli Apostoli e gli viene anche accreditato
il vangelo apocrifo de “il vangelo secondo Filippo”.
Prima di
diventare apostolo era pescatore e conobbe Giovanni il Battista ed era molto
amico di Andrea.
Rispose
immediatamente alla chiamata di Gesù e lo riconobbe come il Messia (Gv 1,43) e
successivamente portò Natanaele , cioè l'apostolo Bartolomeo, per diventare
anch’egli un seguace di Gesù.
A lui Gesù
si rivolge per la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Egli morì
crocifisso a testa in giù e lapidato a Hierapolis all’età di 87 anni, da questo
ne deriva il suo principale attributo, cioè quello della croce, poi seguono il
pane e i pesci per l’episodio della moltiplicazione di quest’ultimi.
Il quadro fa
parte di una serie di dipinti con cornici mistilinee, che corrono lungo le
pareti perimetrali della cattedrale.
Rappresentano
i SS. Apostoli.
Il ciclo è
attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini
locali, operante a Venosa nel secolo XVII.
I quadri
sono a figura intera e coperti con ampi panneggi.
così recita un antico canto popolare
natalizio venosino.
Il natale è una festa molto amata
giustamente, si crea un’atmosfera particolare, c’è una voglia di calore e
serenità nonostante tutto.
È la festa più bella dell’anno.
Però negli ultimi anni il natale è molto
cambiato.
Io ricordo questa ricorrenza negli
anni della mia infanzia, anni difficili con una disoccupazione alle stelle, una
migrazione all’estero molto alta e diffusa ed un’indigenza ampia, che ne influenzava
questa ricorrenza, ormai gratificata da consumi ben più ricchi, di quelli di
quando ero bambino.
Si facevano gare a scuola, a chi
fosse più bravo nell’allestire il presepe in fondo alla classe infatti, ognuno
di noi ragazzini, aveva il compito di portare qualcosa da casa: chi portava un
pastorello, chi della carta roccia o dei rami, chi una o due pecorelle, chi il
muschio e la sabbia per le stradine.
Alla fine il risultato era
stupefacente: perché si assisteva ad un esempio di presepe multietnico, infatti
le statuine erano tutte differenti tra di loro per colore, grandezza, fattura e
per bellezza, nonostante ciò a noi ragazzini questo non interessava, perché la
nostra gioia e la nostra fantasia ci faceva superare ogni differenza e diversità.
Prendendo in considerazione solo le
statuine della natività, personaggi prìncipi del presepe, il maestro sorteggiava
alcuni di noi ragazzini, i quali vincitori erano considerati fortunati.
Naturalmente questa gioia del Natale
e questo entusiasmo nel preparare il presepe, la portavamo a casa, dove ognuno di
noi allestiva il presepe con i propri genitori e con i propri fratelli, in un
angolo della casa.
I regali, a quelli della mia
generazione, li portava Gesù Bambino e non Santa Claus o Babbo Natale,
rubicondo e vistoso nella sua mise rossa con guarnizione di pelliccia bianca.
Il Bambinello, nato in una grotta al
freddo e al gelo, era per noi bambini di quell’epoca lontana, il vettore di
regali per lo più modesti e deludenti; d’altronde si doveva capire: il Bambinello
nato al freddo ed al gelo privilegiava regali adatti al suo habitat: guanti,
sciarpe, cappellino o golf, tutto di lana, fatti rigorosamente a mano con lana
riciclata da una vecchia maglia, e pantofole con l’interno pelo di coniglio,
qualcosa fra i più antiestetici.
Cose utili, ma non eccitanti per noi
bambini di allora.
Non poteva avere altro intento, il Bambino
Gesù, se non l’intenzione pratica derivante dalla sua origine, finché non
arrivò quel fagottone rosso con guarnizione di pelo bianco di Babbo Natale.
Il massimo della concessione ludica erano
dei mattoncini rossi della “Lego” o la scatola del “Meccano”, orrendo gioco di
composizione di elementi senza fascino, pezzetti di lamiera da saldare con
viti, per comporre inutili accrocchi; oppure dei giocattoli di latta.
A dire il vero però a me i giocattoli
(rigorosamente riciclati di anno in anno) non li portava neppure Gesù Bambino,
ma la Befana.
In seguito, col benessere di oggi, Gesù
Bambino smobilitò e arrivò l’allegro scampanante Babbo Natale, portando doni
più adeguati alle aspettative dei nuovi bambini.
Addio guanti di lana riciclata, che
facevano pantane con una sciarpetta ed un copricapo, che nascondeva le orecchie.
Babbo Natale scampanellava, rompendo
l’atmosfera sospesa del Natale di un tempo e invitava al sorriso e, pensandoci
bene, al nuovo consumo.
Questa ricorrenza ha perso nel tempo molto
del suo fascino, ma ha guadagnato in estetica; rimane quel ricatto morale che
ci vuole tutti più buoni.
Oggi le strade sono piene di
decorazioni natalizie, le vetrine dei negozi sono addobbate a festa, i
mercatini di natale che, come ogni anno, spuntano qua e là negli angoli delle
città.
Mi chiedo che ruolo ha assunto il
Natale nella società attuale?
Viviamo in una società in cui si sono
persi i valori di un tempo, una società frenetica,
in cui anche il Natale si è trasformato in una festa meramente consumistica.
Viviamo in una società in cui ogni
festa, più che un momento di riflessione o di ritrovo con le persone amate, si
trasforma in un’occasione per spendere.
Per me, la vera bellezza del Natale
non sono tanto le luci colorate, che illuminano l’albero, i balconi e le
terrazze, gli angoli delle strade, i numerosi mercatini di Natale e lo spendere
per l’acquisto dei regali, ma è il ritrovarsi tutti insieme, una volta l’anno,
con la propria famiglia, mettendo da parte per un giorno i problemi, le
difficoltà, le preoccupazioni e le tensioni; fermarsi per godere di quello che
abbiamo.
Troppo spesso ci dimentichiamo dei
valori, degli affetti, finendo per darli per scontati, perdendo il valore
prezioso delle piccole cose.
Ma oggi per noi che cos’è il Natale?
Una festa meramente consumistica o
una festa da trascorrere con i propri cari?
E la mia mente con i miei ricordi va
inesorabilmente indietro nel tempo.
In questi giorni in cui i consumi
debordano dalla routine usuale e tutti
credono di essere migliori, ma sono solo più nutriti di quanti all’epoca della
mia infanzia, che aspettavano le gratifiche di stipendio, piuttosto che amore e
pace;
di uomini di buona volontà chissà se
ci sono ancora.
Sono molto legato alla Cattedrale di
Venosa, perché è qui che ho trascorso la mia infanzia, è qui che ho ricevuto i
miei primi sacramenti: Battesimo, prima Comunione, Cresima ed è qui che avrei
anche voluto sposarmi, ma purtroppo la chiesa, causa terremoto è stata riaperta
solo alcuni mesi dopo.
È tra i banchi di Sant’Andrea che si
svolgevano le lezioni della “Dottrina”, oggi si dice catechismo; è nei locali
del vescovado (oggi salone del centro giovanile) che trascorrevo i miei
pomeriggi, giocando e svolgendo i miei compiti scolastici pomeridiani con il “doposcuola”
ed insieme ai miei compagni, aspettavamo con gioia il parroco Don Emanuele
Laconca, che durante la pausa, ci deliziava con la merenda, fatta di pane e
marmellata.
Già da ragazzo sono stato sempre
incuriosito da ciò che mi circondava.
Durante le ore di catechismo, seduto insieme
ai miei compagni di classe nei banchi della chiesa, il mio sguardo era sempre
rivolto all’insù, mi attirava la grandezza e la magnificenza dell’intero tempio
con il suo soffitto a cassettoni e con tutti i suoi sacri arredi.
Oggi, con rammarico mi chiedo perché,
tante cose sono cambiate e tante non ci sono più.
Tra le cose che attivavano la mia
attenzione, c’era una in particolare che mi incuriosiva notevolmente: la
presenza ovunque di uno stemma in pietra, rappresentante un sole raggiante.
Lo vedevo riprodotto e ripetersi su
tutti i pilastri delle navate, sugli archi acuti, sulle alte finestre ogivali e
sull’arco dell’antica sacrestia.
Sicuro che si trattasse di un simbolo
scolpito nella roccia ed applicato in modo quasi maniacale nei punti cardini e
strategici, ad esempio su un arco o una porta, non poteva che essere la carta
di identità del padrone di quella casa, cioè Cristo.
Questa convinzione mi ha accompagnato
per diversi anni.
Poi, tempo addietro, studiando, ho
capito che mi sbagliavo.
Sono rimasto molto deluso.
Lo stemma in pietra con il sole
raggiante, che tanto mi piaceva e mi incuriosiva, non solo non rappresentava un
sole ma una stella, e non rappresentava neppure ciò che io credevo, cioè il
Cristo. Rappresentava la stella cometa prevalentemente di sedici raggi (a volte
anche 8), stemma della nobile casata napoletana dei Del Balzo; quel simbolo
altro non era che la “firma” di colui che aveva fatto costruire questo tempio
intorno al XIII secolo, Pirro Del Balzo.
Altra cosa che stento a capire è
l’esagerata ostentazione del blasone di famiglia: evidente che il Duca abbia
voluto ricordarci la committenza, ma forse ha esagerato: ciò è molto evidente
all’interno della cattedrale, dove io stesso a prima vista sono riuscito a
contarne 23, più 3 nella Cripta; credo però, che secondo una mia personalissima
stima, considerata la mania megalomane del Conte, la simmetria, i vari rifacimenti e/o
disfacimenti, le ristrutturazioni, i
terremoti e gli insulti del tempo, gli scudi avrebbero potuti essere molti di
più, almeno una quarantina; mentre pochi e niente all’esterno dell’edificio o
sui muri perimetrali dello stesso, qui se ne conta soltanto due (o tre?): lo
stemma della stella raggiante a sedici punte fa bella mostra sul portone
principale, al di sopra dello scudo vescovile.
Quest’ultimo è condiviso, a mio
avviso, tra il vescovo ed il duca, poiché reca nella sua parte superiore una
stella, immagine del Duca; nella parte inferiore ciò che rimane di un compasso
ed un giglio, emblema del vescovo.
L’ altro scudo ben distinguibile con
due putti che reggono le insegne araldiche, lo si trova sul portone secondario,
sul lato sinistro della Cattedrale.
Egli ha voluto mettere la sua “firma”
ovunque, una firma scolpita nella roccia in modo indelebile.
È ripetuta spasmodicamente su tutti i
pilastri portanti della chiesa, sugli assi portati di colonne, sugli architravi
degli archi acuti, anche nei punti meno visibili, e assicurarsi, che il nome del
suo casato sarebbe stato ricordato nei secoli.
È come se avesse voluto tramandarci
(nel caso lo dimenticassimo) che è lui, il Duca-Conte-Barone Pirro del Balzo,
l’autore della costruzione, ma io credo che egli abbia voluto dire agli uomini
del suo tempo (soprattutto al suo amico/nemico vescovo Nicola Geronimo Porfìdo,
visti e considerati i profondi dissidi tra i due e le minacce di scomunica) che
egli è il vero padrone di questo sacro tempio, costruito con le proprie
finanze, eretto con i propri soldi.
Questo mausoleo moralmente gli appartiene, è suo, anche se destinato alla Chiesa.
Il suo stemma nobiliare all’interno
della Cattedrale è un vero “segno del padrone”.
Il Duca del Balzo con le sue
innumerevoli “insegne stellate” ci ha fatto capire molto esplicitamente e con
estrema arroganza e presunzione, che il vero signore di questa Cattedrale non è
Colui che ci abita, cioè Dio, ma lui.
Stessa sorte è capitata, anche se in
modo apparentemente minore, al suo castello, le sue torri sono fregiate di
bellissimi rosoni e lapidi recanti le insegne del Duca Del Balzo, ma questa è
un’altra storia.
Pirro, applicando così tanti stemmi
nobiliari all’interno della Cattedrale,
ha voluto esercitare il suo personale “diritto d’autore” sull’”opera”
legata ed eretta da lui: in modo tale che questo vincolo d’unione permanesse
indipendentemente dalle vicissitudini storiche e da chi la possedesse
materialmente.
Sono convinto che Pirro si sia riservato
e conservato furbescamente un diritto di proprietà immateriale, il cosiddetto: corpus
mysticum, cioè un diritto morale, che mira a tutelare sia per la sua personalità,
essendone l'autore, sia il suo onore che la sua reputazione, assicurandosi una
corretta trasmissione alle generazioni future della sua opera, la quale è
rimasta inalterata, irrinunciabile ed inalienabile nel corso dei secoli.
Credo infine che, secondo l’usanza
dei nobili e dei grandi monarchi del tempo, alla maniera degli Altavilla e di
Roberto il Guiscardo nella chiesa della SS Trinità, anche egli abbia voluto erigere la “sua” Cattedrale
a tempio di sepoltura della famiglia Orsini/Del Balzo, visto che qui si trova
la tomba di Maria Donata Orsini, moglie di Pirro, che tanta parte ebbe nelle
vicende storiche di Venosa e riservare, alla sua morte, per egli stesso una santa,
degna e nobile sepoltura; infatti al di sopra della nuova collocazione della
tomba nella Cripta è murato uno stemma completo, scolpito in pietra della
nobile famiglia Del Balzo-Orsini-Orange.
La passione per “la mia Venosa” mi
spinge ad occuparmi di tematiche legate alla sua storia; non ho i titoli e non
sta a me raccontare la storia e le gesta del Duca, lascio questo compito a chi
ne ha la facoltà.
Giovanni Paolo II, nel lontano 1996, ci ammoniva dicendo che “l’effigie di Maria Immacolata, che schiaccia sotto i piedi il serpente” così come siamo abituati a vederla da sempre, “è sbagliata”, perché “è un errore filologico”.
Da un errore di traduzione possono venire tante, inattese conseguenze.
E se poi si tratta della Bibbia può venirne anche una folla di immagini e statue sbagliate: o meglio, non proprio "sbagliate", ma decisamente "troppo creative".
E il caso di Maria rappresentata come l' "Immacolata" che schiaccia con il piede la testa di un serpente: l'errore filologico da cui deriva questa immagine è stato messo in risalto da Giovanni Paolo II nel discorso tenuto durante un' udienza generale.
Quella raffigurazione che assume la forma attuale in epoca barocca e compare per la prima volta in Spagna. si rifa' a un versetto del terzo capitolo della Genesi, che secondo la traduzione proposta nella Bibbia "Vulgata" latina recitava così: "Porrò inimicizia tra te e la donna, tra il suo seme e il seme tuo: essa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno".
Ha precisato l’allora Pontefice Giovanni Paolo II, per la precisione il 29 maggio del 1996, oggi santo: "Questo testo ha ispirato molte rappresentazioni dell' Immacolata che schiaccia il serpente sotto i piedi.
Ma quella versione non corrisponde al testo ebraico, nel quale non è la donna, bensì la sua stirpe, il suo discendente a calpestare la testa del serpente.
Tale testo attribuisce quindi non a Maria, ma a suo Figlio la vittoria su Satana".
Sono dunque sbagliate perché basate su un errore filologico, che magari diventa un errore teologico tutte quelle raffigurazioni dell' Immacolata.
Non drammatizziamo, diceva San Giovanni Paolo II: "Poiché la concezione biblica pone una profonda solidarietà tra il genitore e la sua discendenza, è coerente con il senso originale del passo la rappresentazione dell' Immacolata, che schiaccia il serpente, non per virtu' propria ma della grazia del Figlio".
Il Pontefice amava le precisazioni filologiche.
Un mese prima disse che il saluto dell' angelo a Maria, tradotto con il latino "ave", derivato dal greco "chairè, e tale restato anche in italiano; sarebbe "più confacente" tradurlo in "rallegrati".
(Le immagini sono della statua della Madonna Immacolata Concezione della Cattedrale di Venosa
Statua lignea databile tra il XVII ed il XVIII secolo).
una donna
vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi
e sul suo
capo una corona di dodici stelle.
Era incinta
e gridava per le doglie e il travaglio del parto. »
(Apocalisse
12,1-2)
Tota pulchra
es, Maria.
Tota pulchra
es, Maria.
Et macula
originalis non est in Te.
Et macula
originalis non est in Te.
Tu gloria
Ierusalem.
Tu laetitia
Israel.
Tu honorificentia
populi nostri.
Tu advocata
peccatorum.
O Maria, o
Maria.
Virgo
prudentissima.
Mater
clementissima.
Ora pro
nobis.
Intercede
pro nobis.
Ad Dominum
Iesum Christum.
(Le immagini
sono della statua della Madonna Immacolata Concezione della Cattedrale di
Venosa - Statua lignea databile tra il XVII ed il XVIII secolo).
Il giorno dell'Immacolata tra tradizione e credenze
popolari.
Secondo un’antica credenza popolare il giorno
dell’Immacolata il mare è sempre calmo.
In segno di rispetto e devozione per questa festività i
pescatori osservano un giorno di riposo e fanno festa, non gettano le loro reti
in mare, per questo giorno lasciano le loro barche ormeggiate al porto.
Probabilmente questa credenza affonda le sue antiche radici
in alcuni episodi del Vecchio Testamento con la storia di Tobiolo e l'Arcangelo
Raffaele nel Libro di Tobia e del Nuovo Testamento, come la moltiplicazione dei
pani e dei pesci (Mt. 14,13-21, Mc. 6,30-44).
Il pesce, frutto della provvidenza, diviene così un alimento
protagonista nel Vangelo, basta vedere alcuni episodi biblici, questo alimento
rappresenta simbolicamente il Cristo.
Infatti sin dall'epoca paleocristiana i cristiani si
distinguevano con la parola greca Ἰχθύς, che letteralmente significa “pesce” in
greco. È un acronimo formato con le iniziali della frase greca: “Gesù Cristo,
Figlio di Dio, Salvatore”.
Come Tobiolo, durante il suo viaggio con l'Arcangelo
Raffaele e come i Discepoli di Gesù, anch’essi pescatori, anche i pescatori si
affidavano alla Madonna nell'affrontare i pericoli del mare, facevano tutti
parte di un patto lontanissimo nel tempo: un patto di fiducia tra l'uomo e la
natura, tra l'uomo e Dio.
In base a questo lontanissimo patto, c’è l’antica credenza
popolare venosina, che nel giorno dell’ Immacolata i pesci affiorino con la
loro testa fuori dal mare e aprendo la bocca lodino la Vergine Maria.
In questa giornata vige un patto di non belligeranza tra i
pescatori ed i pesci, tra l’uomo e la natura.
Naturalmente mai nessuno di noi ha mai visto affiorare dei
branchi di pesci e disporsi in fila con la bocca aperta, ma l’idea favolistica
e romantica ci piace ricordarla e raccontarla ai bambini e tramandarla alle
nuove generazioni.
L’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, cade in periodo di
Avvento, che è attesa per la venuta del Signore, quindi, si fa penitenza; non
si mangia carne; sono bandite alle carni ed i cibi considerati lussuosi e si da
spazio al pesce, come sardine, baccalà, sgombri e seppia; questo tipo pesce era
reputato fino ad una cinquantina di anni fa, come un piatto povero, ma ricco di
un forte significato religioso.
Dobbiamo nutrirci di quel “Pesce”, simbolo del corpo di
Cristo, che è Figlio di Dio e Salvatore, solo così riusciremo a salvarci e a
guarire dai nostri “mali”, e questa non è una favola!
Quale migliore occasione per parlare un po’ del santo a cui è intitolata la nostra Cattedrale di Venosa?
Gli “Apostoli di Sant’Andrea" della Cattedrale di Venosa:
Sant’Andrea
È il santo Apostolo principe di questa chiesa ed il grande quadro che lo ritrae è molto suggestivo ed altrettanto espressivo: raffigura l’Apostolo con la tunica azzurro ceruleo ed un mantello di color rosa antico nell’atto di abbracciare la “sua” croce;
Andrea è ritratto nel mentre affronta impavido il martirio, ci appare sereno, rassegnato e consapevole di ciò che lo aspetta ed estasiato di morire per il suo Signore. La sua corporatura è massiccia e robusta; guarda in alto, i suoi occhi sono rivolti al cielo in segno di accettazione della santa morte; egli è rappresentato con “calvizia ippocratica” e con barba folta e bianca; braccio sinistro proteso in avanti e la mano aperta; nella mano destra stringe un libro, aperto sulla dicitura: “SALVE, CRUX PRETIOSA” e due grossi pesci penzolano più sotto, a ricordo dell’episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, infatti fu Andrea a presentare il ragazzo con i pani e i due pesci (Gv 6,8-13).
Andrea infatti fu martirizzato, crocifisso su una croce a X (lettera dell’iniziale del nome greco di Gesù), fu portato sul luogo del martirio legato con corde ai polsi. L’intera figura dell’Apostolo poggia su un piedistallo, ricco di ornamenti barocchi.
È il dipinto più grande della serie, è l’unico quadro dell’intero ciclo ad avere un piedistallo, che è un trono, perché la Cattedrale è a lui dedicata. Stranamente è anche l’unico Apostolo a non avere l’aureola.
I suoi simboli sono: la croce ad X chiamata croce di S. Andrea, (strumento del suo martirio), la rete e i pesci in quanto strumenti del suo mestiere. Le sue categorie di protezione sono pescatori e pescivendoli.
Andrea dal greco significa virilità e coraggio. Nacque a Betsaida in Galilea nel primo secolo a.C., era figlio di Giona e fratello di Pietro. Il suo culto si diffuse nel medioevo dove assunse i tratti del santo pellegrino e guerriero. Precedentemente alla conoscenza di Gesù, Andrea era pescatore come suo fratello Pietro e discepolo di S. Giovanni Battista e fu il primo ad essere chiamato da Gesù;
è stato anche il primo vescovo di Costantinopoli. Il grande quadro fa parte di una serie di dipinti con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della cattedrale e che rappresentano i SS. Apostoli. Il ciclo è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII. I quadri sono a figura intera e coperti con ampi panneggi.
Gli “Apostoli di Sant’Andrea" della Cattedrale di Venosa:
San Giacomo Maggiore
Il quadro fa parte di una serie di dipinti con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della cattedrale.
Nel nostro dipinto San Giacomo si presenta così: i capelli e la barba sono scuri molto simili a quelli di Gesù ed indossa: tunica azzurro cobalto e mantello giallo testa di moro.
La mano destra è stretta al petto, mentre con la mano sinistra regge un grosso libro ed un bastone da pellegrino. Sul petto è visibile e riconoscibile la classica conchiglia a capasanta. La tunica è legata in vita e le maniche sono rimboccate. I suoi classici attributi sono il cappello ed il bastone da pellegrino con una zucca gialla essiccata, utilizzata come borraccia per abbeverarsi, la bisaccia e una conchiglia; oltre a questi ha anche il libro, la spada e lo stendardo.
Il nome Giacomo deriva dalla radice GB che vuol dire “proteggere” o “seguire”. Nacque in Palestina nel primo secolo a.C. Era figlio di Zebedeo e Salomea e fratello di Giovanni. I due fratelli furono chiamati da Gesù “figli del tuono” per sottolinearne l’inesauribile zelo di cui questi erano dotati, ma anche il loro temperamento nervoso.
Prima di conoscere Gesù era pescatore come il fratello. Il suo culto si diffuse in modo particolare in Spagna dopo il ritrovamento delle reliquie a Santiago.
Giacomo Maggiore fu il primo ad evangelizzare la Spagna. Egli fu testimone della trasfigurazione e fu presente nel giardino del Getsemani.
Fu il primo apostolo martire; alla morte di Gesù fu imprigionato, flagellato e decapitato con una spada nell’anno 42 d.C. a Gerusalemme da Erode Agrippa. Le categorie di protezione di Giacomo Maggiore sono pellegrini, cavalieri, soldati.
Il quadro fa parte di una serie di dipinti con cornici mistilinee, che corrono lungo le pareti perimetrali della cattedrale. Rappresentano i SS. Apostoli.
Il ciclo è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII. I quadri sono a figura intera e coperti con ampi panneggi.
Gli “Apostoli di Sant’Andrea" della Cattedrale di Venosa:
San Pietro
San Pietro, detto Simon Pietro è il leader degli Apostoli, è raffigurato con una tunica di color azzurro ceruleo ed un mantello giallo senape, la testa rivolta verso destra e con il braccio destro sembra voler invitare coloro che lo guardano a seguire la via del “Maestro”, nella mano sinistra stringe le “chiavi” ed un libro, a ricordarci il “principato” conferitogli da Gesù e dei suoi due scritti.
Simon Pietro era chiamato da Gesù: “Kefa”, “Petros” in latino, cioè roccia, pietra.
Questo deriva dal fatto che Gesù lo chiamò e gli disse: “Su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Pietro nacque a Betsaida in Galilea a metà del primo secolo a.C visse a Cafarnao e morì a Roma nel 64-67 a.C.
Secondo alcune fonti storiche e secondo quanto ci dice il canonico Giuseppe Crudo in un suo libro, l'Apostolo Principe, cioè San Pietro, nel suo cammino per recarsi a Roma, si fermò alcuni giorni ed evangelizzò a Venosa, ma di questo parleremo un'altra volta.
A Roma Pietro fu gettato in prigione e condannato a morte da Nerone, crocifisso legato con una fune a testa in giù.
Pietro era figlio di Giona e fratello di Andrea.
È venerato ovunque e gli scritti che gli sono attribuiti sono la prima e la seconda lettera di Pietro e la lettera alla chiesa di Corinto.
Prima dell’incontro con Gesù egli era un pescatore del lago di Tiberiade.
Dopo la morte di Gesù, Pietro predicò la sua parola e ispirò i primi cristiani, fu lui il primo papa.
Le sue categorie di protezione sono: fabbricanti di chiavi, perché gli sono state donate quelle del paradiso, pescatori, pescivendoli, portieri.
I simboli che gli vengono attribuiti sono: le chiavi, il libro, il gallo, la barca e la rete.
Il primo per il motivo già detto; il libro in quanto a lui sono attribuiti alcuni scritti; il gallo perché Gesù gli predisse che al canto del gallo Pietro lo avrebbe rinnegato tre volte; gli ultimi due riguardano la sua attività di pescatore.
Nell’ iconografia classica Pietro talvolta lo troviamo rappresentato in vesti papali.
Egli spesso è rappresentato con San Paolo, che sono stati entrambi martirizzati a Roma, entrambi sono i protettori della città di Roma.
San Pietro con le chiavi sono l’emblema per eccellenza del soglio pontificio.
Serie di dipinti con cornici mistilinee, che rappresentano i SS. Apostoli; attribuita dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII. I quadri sono a figura intera e coperti con ampi panneggi.
Entrando
nella Cattedrale di Venosa (PZ) una delle opere che attirano l’attenzione del
devoto e/o del visitatore è il dipinto di Sant’Andrea, alla quale è dedicata
questa chiesa.
Oggi il
quadro, di notevoli dimensioni, è collocato dietro l’altare in fondo alla
chiesa, nell’abside a lunetta, ma anticamente il dipinto si trovava incastonato
sul soffitto a cassettoni al centro della navata centrale. Purtroppo di questo
prezioso ed antico soffitto a cassettoni ne abbiamo solo uno sbiadito ricordo.
Lungo i muri
delle navate si possono apprezzare una serie di dipinti con cornici mistilinee,
che rappresentano i SS. Apostoli: sono a figura intera e coperti con ampi
panneggi.
Il ciclo dei
dipinti è attribuito dalla storiografia al pittore Giuseppe Pinto di presunte
origini locali, operante a Venosa nel secolo XVII.
Bisogna dire
che i dipinti pur essendo di notevole fattura, purtroppo si apprezzano poco,
perché collocati troppo in alto per ammirarne la bellezza e le caratteristiche.
I quadri
sembrano essere dipinti ad olio su tela.
Il ciclo dei
quadri è composto da dodici dipinti delle medesime dimensioni, più uno
notevolmente più grande.
La stesura
del colore rivela l’urgenza del nostro pittore di catturare un’impressione di
luce o uno stato d’animo di ognuno dei soggetti ritratti.
Guardando ed
analizzando con più attenzione questi quadri, mi sono posto alcune domande:
quale sia il senso di queste opere?
Cosa
vogliono trasmette?
Cosa
vogliono cogliere?
Come sono
fatte?
Cosa rappresentano
e cosa comunicano?
La poetica
di questo ciclo pittorico, a mio avviso, si manifesta attraverso un linguaggio,
fatto di luce, colori, forme, composizione e simboli, con cui il soggetto viene
trattato.
Si tratta di
soggetti simili, ma diversi, capaci di comunicare, appunto, “messaggi” diversi.
Capire la
poetica di queste opere è un elemento di lettura imprescindibile, la cui
mancanza produce una relazione molto superficiale con le opere stesse.
Cogliere
solo l’aspetto formale, secondo me, fa perdere ogni rapporto autentico con il
dipinto.
I dipinti, a
mio avviso, considerata anche la collocazione, sono stati concepiti come
finestre che si aprono sul cielo, e quindi per mostrare una realtà celeste,
piuttosto che una terrena.
L’artista
per dipingere le vesti degli Apostoli ha usato 4 colori fondamentali: il rosso
porpora, il giallo testa di moro, il azzurro cobalto o ceruleo ed il rosa
antico, ma non mancano il celeste, il verde oliva ed il bronzo, lo sfondo dei
quadri è sempre scuro ed indefinito.
Tutti gli
Apostoli assumono posture diverse; sono rappresentati scalzi e tutti hanno
l’aureola ad eccezione di Sant’Andrea, che è il dipinto più grande.
Ad un
attento esame gli Apostoli sono riconoscibili dalle caratteristiche ed dagli
attributi, che ne hanno determinato il
loro martirio o il loro segno di riconoscimento in vita.
Dodici sono
i quadri che corrono lungo le pareti della chiesa, tutti di dimensioni uguali,
ad eccezione di quello raffigurante Sant’Andrea, che è collocato appunto
nell’abside ed è di notevoli dimensioni; quindi in totale gli “Apostoli” sono
tredici.
Ma come è
possibile questo, se sappiamo che gli Apostoli scelti da Gesù erano solo
dodici?
C’è da fare
una semplice osservazione: Giuda Iscariota, il traditore, naturalmente è stato
sostituito all’interno dei dodici da S. Mattia; comunque i conti non tornano: è
vero c’è un “Apostolo” in più.
L’Apostolo
“intruso” è San Paolo, detto: “l’Apostolo delle genti”, rappresentato con una
lunga spada in mano.
Il Grano
Cotto è un dolce che si tramanda di generazione in generazione il 2 novembre di
ogni anno, giorno della ricorrenza dei defunti “ in onore appunto, delle
persone che non ci sono più.
Nella mia
famiglia questo dolce, “u grane cuutt“, come lo chiamava la mia mamma; veniva
preparato una sola volta l’anno, in occasione della festività “ dei morti” ed è
uno dei pochi piatti tradizionali della nostra cucina che ancora oggi
conserviamo.
È un dolce
conosciuto in molte zone del sud Italia, ma differisce da regione a regione
solo per l’uso di alcuni ingredienti.
È un dolce
ipercalorico ed antico, di origine contadina, preparato inizialmente con
ingredienti poveri, andandosi ad arricchire nel corso dei secoli, fatto quindi,
con ingredienti genuini e semplici, gli stessi che sono reperibili nelle nostre
campagne: grano, vinocotto, fichi, uva, mandorle, noci, melagrana.
La
caratteristica però che sembra mettere tutti d’accordo è che questo dolce piace
a tutti, lo mangiano indistintamente gli anziani, così come lo gustano i
ragazzi, anche se un po’ perplessi.
Pare che le
origini di un dolce simile risalgano all'antica Grecia, in occasione della
commemorazione dei defunti e durante i funerali .
Il nostro
“grano cotto” è ricchissimo di simbolismi:
In tutte le
culture e le religioni il grano è il simbolo stesso della vita e della
fertilità.
Ma per
raccogliere il chicco di grano bisogna recidere la spiga, ucciderla e il chicco
solo dopo essere morto a sua volta sottoterra, rinascerà in una nuova spiga.
Il grano
associato alla morte e alla resurrezione diventa il simbolo del continuo e
incessante ciclo di morte e rinascita della natura.
Il vino e il
grano rappresentano la rinascita, la melagrana ricorda il sangue ed è simbolo
di fertilità come il fico, la noce simbolo di vita e morte.
Simbolicamente
è la riaffermazione della vita che primeggia sul ciclo della vita/morte/vita.
Secondo
antichissime credenze, mangiare il grano nel “Giorno dei morti” assume, oltre
ad un valore rituale, anche un significato propiziatorio per garantire
continuazione alla vita e prosperità.
Il grano
cotto erano i defunti, il vincotto il loro sangue, le noci le loro ossa, gli
acini di melograno gli occhi, i canditi la frutta che li rappresenta di più.
Secondo le
antiche tradizioni c’era la concezione che, preparando un posto speciale, le
forze della natura possano arrivare all'anima di chi non c'è più ... e far
sentire la nostra voce.
Anticamente
nelle nostre zone, vigeva il rituale di apparecchiare la tavola per i defunti
la vigilia del 2 Novembre.
Come si sarà
capito dall’elenco degli ingredienti, la difficoltà più grande della
realizzazione del grano cotto è quella di riuscire a procurarsi il vinocotto
(mosto cotto) ovvero il risultato della riduzione a caldo del mosto d’uva.
Riduzione
nel senso che da 10 litri di mosto si ottiene circa un litro di vinocotto.
Fino a
qualche anno fa, al di fuori delle nostre zone, dove era un ingrediente
reperibile in quanto fondamentale per il dolce, era praticamente introvabile.
Oggi invece
il mosto cotto lo si trova, seppure con qualche difficoltà, perché è diventato
un ingrediente gourmet, da usare al posto della glassa di aceto balsamico su
formaggi stagionati ed insalate. E come tale il costo è salito
vertiginosamente.
La ricetta
del grano cotto è semplice: si cuoce il grano, lo si lascia raffreddare e si
aggiungono gli altri ingredienti.
Mia madre
metteva a bagno il grano almeno 24, se non addirittura 36 ore prima di cuocerlo
e lo cuoceva per circa un’ora (ma vediamo come).
La cottura
del grano sul fuoco per 10/15 minuti ed una successiva cottura passiva ottenuta
avvolgendo la pentola con vecchi giornali e una coperta di lana, per ridurre la
dispersione di calore.
Ingredienti:
200 gr di grano
tenero
70 gr di
cioccolato fondente
⅞ gherigli
di noce
i chicchi di
una melagrana di grandezza media
1 pezzo di
cedro candito
2 tazzine da
caffè di mosto cotto (vinocotto)
le scorze di
mezzo limone o, in alternativa, un cucchiaino di cannella in polvere.
un pizzico
di sale.
Istruzioni:
1-Cuocere il
grano mettendolo in una pentola pesante, coperto da almeno un paio di dita
d'acqua e un pizzico di sale. Portare ad ebollizione e lasciare cuocere circa
10/15 minuti. Spegnere il fuoco, avvolgere la pentola con vecchi giornali e poi
con una coperta di lana, e lasciare raffreddare.
2-Spezzettare
grossolanamente il cioccolato ed i gherigli di noce.
3-Cubettare
il cedro candito alla misura leggermente più grande di un chicco di melagrana.
4-Scolare
(se necessario) il grano raffreddato ed aggiungere tutti gli ingredienti
solidi: cioccolato, chicchi di melagrana, pezzetti di cedro.
5-Mescolare
ed unire il mosto cotto.
6-Aggiungere
le scorze di limone grattugiate finemente, mescolare il tutto con un cucchiaio.
7-Lasciare
insaporire per almeno un paio d’ore.
8-Versatelo
in coppette, servitelo e … gustatevelo, anzi, gustiamocelo!
Colonna di
ammonimento e di ringraziamento, erta agli inizi del XVII sec. dalle autorità
ecclesiastiche del tempo, a ricordo dell' annullamento di una scomunica papale
che gravava sulla comunità venosina. Questa colonna si trova davanti la Cattedrale di Venosa.