Negli anni ’60 in piazza San Pietro qui a Venosa esisteva un
vecchio forno, era il tempo in cui il pane si impastava ancora a mano e lo si
cuoceva nel forno a legna.
Il forno era gestito da mio zio Mauro, per tutti era
Maurocc' 'u furnar' (al secolo Mauro Solimano).
Quella antica piazzetta del centro storico era, fino quei
tempi, uno dei punti nevralgici del paese.
Piazza San Pietro era meglio conosciuta come “la chiazz d’
lu pesc’ ” (piazza del pesce); infatti oltre al forno di zio Mauruccio, al
centro della piazzetta si svolgeva il mercato del pesce; c’erano anche due
botteghe di calzolai: la “peteje” (bottega) d’ Mastr’ Fael’ (al secolo Raffaele
Russo) detto Mericanidd’ ‘u scarpar’ e quella d’ ‘u maup’ (alias Siviglia,
chiamato così poiché era muto dalla nascita).
Più che botteghe erano due
sgabuzzini molto angusti, ma strapieni di vecchie cianfrusaglie, scarpe e di
utensili per il lavoro da calzolaio; tanto è vero che i due artigiani spesso,
per avere più spazio, svolgevano il loro lavoro fuori dal locale, in mezzo alla
strada.
Visti i tempi di crisi e di povertà tra i due vigeva anche
una sorta di sana rivalità e competizione.
Il forno di piazza San Pietro era piccolo ma accogliente.
In inverno, alle prime luci dell’alba per il freddo
sostavano diverse persone all’interno del locale, che non avendo un luogo più
caldo, si davano appuntamento lì anche se per una breve sosta: il metronotte, i
guardiani, cacciatori, netturbini ed altre persone.
Io ero piccolo ed al forno ci andavo spesso con mia madre,
perché anche lei faceva il pane in casa, per cui sono molto belli e vividi in
me questi lontani, ma cari ricordi.
Mio zio Maurocc’ a volte si avvaleva della collaborazione di
altri “furnar” (fornai), come “Cusemain” (Cosimino Carlone) e mio padre stesso,
“Saverie” (Saverio Giaculli).
La giornata per zizì Maurocc’ e gli altri “furnar”
cominciava molto presto, intorno alle 4 del mattino, poiché c’era da
“accendere” il fuoco, che consisteva nel scendere a ‘u ‘mbirn’ (che era il
luogo del retrobottega chiamato appunto l’ inferno, dove solo il
fornaio-fochista aveva accesso) ed alimentare il fuoco del forno con fascine
consistenti di legna o con secchi di sansa, per circa un paio d’ore.
Si lavorava sodo, senza sosta.
Ognuno aveva il suo ruolo.
Si lavorava soprattutto per conto terzi, raramente si
vendeva del pane ai negozi, poiché il pane, a quei tempi lo si faceva
esclusivamente a mano in casa.
Nell’arco di tutta la preparazione ‘u furnar’ dosava, pesava,
versava, contava, confrontava, tutto a memoria; calcoli e tempi segnati più con
l’esperienza che con la bilancia; poiché c’era da rispettare la quantità di
farina versata a sacchi nella impastapane, la quantità d’u’ crescent’ (il
lievito), calcolare quindi i tempi di lievitazione, la temperatura del forno ed
infine i tempi di cottura.
Era una corsa contro il tempo, fatta di gesti sperimentati;
gesti collaudati, sempre uguali, sempre gli stessi negli anni e nel tempo.
Come dicevo prima, ognuno aveva il suo ruolo: chi alimentava
il fuoco, chi impastava, chi infornava, chi sfornava e chi metteva l’ panedd’
(le panelle o pagnotte da 2-3 kg) nelle rispettive ceste.
Era come una catena di montaggio che nessun robot oggi
avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “, tanta era la
velocità, che solo l’occhio attento ed esperto riusciva a non confondere le
panelle di pane di una proprietaria dall’altra.
C’era un gran profumo, ma anche un gran caldo.
Anche le massaie che nel giorno stabilito “facevano” il
pane, si alzavano all’alba per impastare il pane e dargli il tempo di riposare
per la lievitazione.
Tutto doveva essere pronto per l’arrivo du’ furnar’.
All’alba i furnar’ iniziavano il loro giro per il paese a
raccogliere il pane.
I primi tempi erano muniti d’ la trainell' (ovvero un
carretto) poi ch’ lu’ trerrot’ (il tre ruote, il motocarro) adattato con
apposite sponde al trasporto “d’ l’ panedd’ “ d’ pan’.
Nei vicoli più angusti e stretti ci andavano a piedi,
portando a spalla le tavole piene di pasta lievitata contenuta in avvolgenti
tovaglioli detti “stiavocch’ “.
Le panelle di allora, essendo fatte tutto in casa ed a mano,
avevano forme e pesi diversi, ed anche per questo si distinguevamo le une da le
altre.
Tipico era il grido du’ furnar’ per richiamare di buon
mattino le donne e le massaie, ognuno aveva il suo fischio o verso di
riconoscimento.
Raccolto tutto il pane, era tempo di infornalo. Le panelle
di pasta venivano rimosse singolarmente dai tovaglioli con gesti sapienti e
collaudati e messi sulla lunga pala di legno e prima di essere infornate mio
zio tracciava con la “rusulecchje” (spatola) su ogni singola papanella una
croce, in segno di benedizione.
Di tanto in tanto mio zizì Maurocc’ sbirciava all’interno
del forno se tutto procedesse bene, fino al termine della cottura; sua infatti
era la responsabiltà della cottura e dalla qualità del prodotto dipendeva il
suo guadagno ed il suo profitto economico.
La temperatura per cuocere il pane oscillava tra i 200 e i
250° C.
Trascorso il tempo necessario le panelle di pasta bianca si
indoravano, il pane era cotto.
Era giunto il momento di sfornare.
Si preparavano i cesti ed i tavolacci.
La temperatura all’interno del locale era elevata, c’era un
gran caldo.
Ora la collaborazione tra i fornai era determinante.
Tutto diventava veloce.
Zizì Maurocc’ con la sua lunga pala di legno sfornava il
pane e lo riponeva in cesti di vimini; un altro lo prendeva con le mani callose
e lo riponeva sui tavolacci attaccati al muro.
Io con i miei occhi di bambino ero incuriosito dai calli
durissimi delle loro mani, ero impressionato dal fatto che non si ustionassero,
ero meravigliato da come loro prendessero le panelle bollenti appena sfornate e
le riponevano sui tavolacci.
Era una fase molto delicata.
Guai ad intralciare il lavoro dei furnar’ in quei momenti,
ci andava di mezzo l’incolumità del malcapitato, accompagnato ad un ricco
elenco di imprecazioni ed di bestemmie.
Era, come dicevo sopra, come una catena di montaggio che
nessun robot oggi avrebbe potuto sostituire le braccia “d’ chiri furnar’ “,
tanta era la velocità, che solo l’occhio attento ed esperto e la loro maestria
riusciva a non confondere le panelle di una proprietaria dall’altra.
Nei miei ricorsi di bambino ricordo che di tanto in tanto,
durante questa fase, si staccassero involontariamente dal bordo del pane delle
sottili fettine di mollica, chiamate “petait’ “ (pepite), erano molto
appetitose perchè calde, morbide e profumate.
C’era un gran profumo ma anche un gran caldo.
Ricordo che il profumo del pane appena sfornato era
inebriante, poi in alcune occasioni si infornavano anche dei “tiani” di “coc’l’
, cioè tegami di focaccia al pomodoro, condita con un filo d’olio, qualche
oliva ed un pizzico di origano.
Nulla a che vedere con la pizza di oggi.
Nella ricorrenza del Natale e di Pasqua il profumo del pane
fresco si accentuava notevolmente e si mescolava ad altro; il fornaio era
costretto a fare gli straordinari, poiché non solo bisognava cuocere il pane ma
anche i biscotti tipiti tradizionali venosini: i "raffajul’ " , i
taralli, detti “taradd' scaud't' “ nonché per i “pizzicannelli” e non mancavano
mai neppure le tortiere di “vr’dett’ “ cioè brodetto (una pietanza fatta con
cardoni, uova e carne, tipica del periodo pasquale) e le tortiere di patate al
forno.
Anche le paste per i matrimoni venivano preparate in
"tiani" (tegami) ed infornate qui.
Tra le ore 15.00-16.00 si ripeteva al contrario il giro per il
paese per la consegna del pane alle rispettive massaie.
Oggi, quando provo a raccontare questi miei ricordi di
fanciullo alle nuove generazioni, alcuni mi ascoltano con attenzione, altri mi
sorridono meravigliati, altri ancora mi guardano increduli, credendo che tutto
ciò sia di un altro mondo; ed hanno ragione: tutto ciò che ho raccontato
appartiene ad un mondo ormai passato; un mondo molto più povero di quello di
oggi, ma più semplice, più modesto, più concreto e rispettoso di tutto.
Davvero erano altri tempi!